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Il Tibet, il Dalai Lama e l’Agartthi

DE SIDEREUM

Prendiamo spunto da un recente dossier apparso su TIME del 18 marzo 2019 per fare qualche considerazione sulla situazione del Tibet. La versione semplice sarebbe quella di un paese in esilio, vittima dal 1959 della persecuzione del regime comunista di Mao e da allora progressivamente deprivato dei propri atavici possedimenti.

Questa visione semplificata è certamente vera. A patto di non confondere la leggenda dell’ “Orizzonte Perduto” (come la definisce Charlie Campbell, autore del richiamato dossier) con la verità storica: “il regno non fu mai una utopia agraria e spirituale. La maggior parte dei residenti vissero un’esistenza hobbesiana. I nobili erano strettamente legati in sette classi, con il solo Dalai Lama appartenente alla prima. Pochissimi tra le persone comuni ebbero anche un livello minimo di educazione e istruzione. La medicina moderna era proibita, soprattutto la chirurgia, ed anche malanni minori erano causa di morte. Le malattie erano tipicamente trattata con impacchi…

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Prometheus riporta il fuoco al Teatro Antico di Catania

Prometheus

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Non ci poteva essere dramma più potente del Prometeo di Eschilo per far sentire chiaro e percepibile lo spirito di potente magia del Teatro Antico di Catania. Prometeo è immagine vivente del Teatro tutto, nel suo voler dar voce al racconto degli Dèi e, tra questi, all’unico Dio capace di donare agli effimeri mortali qualcosa per permettere loro, cioè noi, di poter comprendere la natura spirituale delle cose. Ma proprio per questo Prometeo viene sottoposto a una tortura eterna, incatenato. In questo modo, nei residui dello scontro titanico, qui Prometeo può evocare le sorti sue e dei suoi alleati: suo fratello Atlante, e Tifeo, che venne schiacciato sotto l’Etna.

Tutto diviene simbolico, se si pensa che il Teatro Antico di Catania è stato per oltre undici secoli sepolto sotto una coltre di case e palazzi, fino al punto – incredibile a dirsi ma non per questo meno vero – da…

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di favole e incantesimi

A Piazza della Morte, Viterbo, là dove si accede per visitare i corridoi sottorranei della città: è qui che ho incontrato Pier Isa della Rupe, per la presentazione del suo libro “Streghe”.

streghe

Con l’introduzione di Caterina Luisa De Caro, come sempre impegnata in un percorso di promozione di idee che conducono a percorsi di coscienza sociale e civile attraverso la letteratura, le arti e la conoscenza della storia, ci introduciamo ad un percorso di narrazione che trova nel contesto di questa cripta sotterranea un’ambientazione perfetta: e non perché tetra, tanto meno perché sulfurea o sepolcrale. Non c’è da aver paura delle streghe narrate da Pier Isa della Rupe: se mai, c’è da aver rispetto, un rispetto che trova le sue radici in un’altra idea del femminile, spiritualizzata nella dimensione concreta e fantastica delle Figlie della Luna.

Questo romanzo possiede diversi livelli di lettura. In superficie, è costituito da una serie di favole, di racconti fantastici dove la realtà si immerge nel sogno per esserne fatalmente trasformata, dovendo riconoscere la superiorità dell’immaginazione sulla realtà: perché il compito dell’immaginazione è di trasformare la nostra realtà e, se forse il sogno non può trasformare la relatà di tutti, di certo può trasformare la realtà di coloro che lo vogliono.

Il tono della narrazione è consustanziale alla natura delle vicende narrate. E se quando la si ascolta parlare, Pier Isa stupisce per il suo naturale talento di parlare con tono lieve, dosando le pause come in una partitura musicale, creando un incantesimo sonoro ancor prima di averci stordito con le sue immagini di sogno, quando ne inseguiamo la parola scritta troviamo un lessico che si aggrappa alle radici degli alberi del bosco, nelle spore del nocchio, nei pistilli di ogni fiore, che prende sapore di legno e di mela, l’odore forte dell’erica, delle felci e della terra bagnata, dove si può sentie il belare delle greggi, il frinire delle cicale e in lontananza vedere i contorni di Pale, la dea dei pastori.

Se in superficie il racconto appare una fiaba, ad un secondo livello si manifesta come un trattato di antropologia, una ricerca strenua, condotta come in preda a una sete inestinguibile, un insopprimibile desiderio di saper tutto della memoria, vera e immaginaria, che si lega al racconto tramandato degli anziani sapienti di questi luoghi, cui Pier Isa, attraverso lo studio delle fonti o semplici frammenti di testimonianze, ricostruisce per restituire a noi tutti l’essenza e lo spirito dei luoghi. Così Elfi, Sirene, Ondine, Coboldi e ogni genere di Spirito si avvicina a noi per introdurci ai segreti dei monti Cimini.

La poesia in prosa con cui il racconto si scioglie nella mente, spesso prendendo la sensazione di un caleidoscopio lisergico dove una visione apre in successione a un’altra come in una corsa di frattali, la realtà del tempo fenomenico evapora quasi del tutto, e il paesaggio può rapidamente assumere le forme che questi luoghi potevano avere nel Cretaceo, con la manifestazione di fuoco degli antichi vulcani che animavano i Cimini, per poi ritornare agli inizi del secolo scorso, dove la maggior parte dei personaggi di questo catalogo antropologico si muove e vive le sue storie, ma senza mai rimaner prigioniero di uno spazio e un tempo dato: perché le apparizioni non sono riducibile alle forme sensibili dei fenomeni, e sempre è possibile in queste pagine che le barriere siano oltrepassate, sia quando si tratta di un collegamento sotterraneo con un altro luogo del mondo, sia quando il cielo si manifesta nel suo essere parte del viaggio, e la legge universale dell’Amore unico motore.

L’Amore universale resta il motore di tutto malgrado la cattiveria insita nel cuore dell’uomo: e quando nel cuore del libro ci imbattiamo nella ricostruzione che Pier Isa fa delle vicende della prima donna di cui la storia ci dà testimonianza del suo esser bruciata come strega, nel 1347, anche qui non si tratta di una maledizione, ma della sublimazione di tutto quel che non è stato compreso, che non è stato accolto, che è stato messo da parte e distrutto, perché troppo ricco d’amore e di fantasia. Le streghe e le fate non sono creature diverse: perché la legge dell’Amore è universale, come i racconti di Pier Isa sono storie d’amore e di ricerca, eterna favola dell’anima, a ricordarci che l’amore non può essere negato, umiliato, nascosto. Per questo siamo destinati a ritrovarci.

 

[Davide C. Crimi]

 

 

Antropologia dell’attore

Questo articolo trae spunto dallo spettacolo Kirikù un eroe piccolo piccolo (al teatro Vascello di Roma, fino al 14 aprile), nell’adattamento teatrale e regia di Danilo Zuliani. Sul palco Alessandra Maccotta, Aron Tewelde, Valeria Wandja, Jesus Issa Seck, Yonas Aregay Kidane, Francesca Piersante.

La favola di Kirikù è ben nota, essendo entrata nell’immaginario collettivo grazie al film di animazione del 1998 “Kirikù e la strega Karabà”. Essendo una storia tradizionale, tramandata da lunghe generazioni, tanto che non è possibile stabilire l’esatta origine di questo racconto popolare, la storia di Kirikù è una grande allegoria del percorso di crescita del “diventare grandi”.

Lasciamo a qualche foto di scena il compito di descrivere lo spettacolo (foto tratte dalle pagine fb della compagnia Nomen Omen) e prendiamo il largo per seguire le diverse incarnazioni del personaggio (più esattamente, della sintesi dei personaggi come emerge dall’adattamento di Zuliani) oggetto dell’interpretazione di uno degli attori, Jesus Issa Seck, provando a farne un tema di antropologia teatrale in rapporto al lavoro di introspezione dell’attore.

Com’è noto, le vie principali all’interpretazione sono quelle dell’immedesimazione (essenza del metodo Stanislavskij, prossimo all’interpretazione realistica, inteso come rappresentazione realistica) o dello straniamento (essenza del metodo Brecht, incline a denunciare l’artificialità della rappresentazione, attraverso gesti innaturali e forte utilizzo del trucco, in misura rapportabile alla funzione delle maschere nel teatro antico). Queste due vie sono collegate da una terza teorizzazione, quella di Strasberg che, con la  “legge del fondamento interiore“, ha trovato una via intermedia tra immedesimazione e straniamento, introducendo l’improvvisazione (il jazz) nel recitativo. Possiamo ritenere che questa riflessione, applicata ad uno spettacolo di tradizione africana, sia in certa misura rivelatoria del debito che le teorizzazioni occidentali hanno in rapporto al teatro di tradizione, analogamente al modo in cui il jazz ha il suo fondamento nel blues e il blues nel deposito atavico della musica africana.

Ma non è di questo che qui parleremo quanto, piuttosto, del lavoro sulla coscienza che implica il recitare una parte: perché questo, nel suo svolgersi, denota delle relazioni che devono intercorrere tra la coscienza dell’attore e l’archetipo che è chiamato a impersonare. A questo punto possiamo notare il rigore quasi matematico della sequenza dei personaggi interpretati da Seck:

  1. Avevo un cappello magico, ma gli spiriti me lo han portato via.
  2. Riduzione a “stupida sentinella”, nemico di Kirikù (cioè nemico di sé stesso) e pronto a denunciarne ogni tentativo di azione positiva di riscatto della coscienza.
  3. Reintegrazione nella saggezza (apparizione come nonno di Kirikù, ovvero del Kirikù perfezionato) e abbandono della condizione di convenienza per tornare alla via della Coscienza per la vita universale.
  4. Personificazione della tradizione, ruolo sacerdotale nela celebrazione del trionfo della verità e indicazione a tutti della via della Coscienza.

Attraverso questo percorso, ognuno può trovare il suo specchio. A questo serve il lavoro dell’attore. Per sé e per gli altri. Per tutti e per nessuno.

 

Scandurra: Opere

Un catalogo dei colori e delle forme dell’anima

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https://www.amazon.it/dp/1794154949

Finalmente disponibile il catalogo delle opere di Nino Scandurra.

Antonino Scandurra è nato nel 1950 in una viuzza incantevole dell’isola di Ortigia: la via dei Candelai, a lui tanto cara, che dal colle del Tempio di Minerva degrada alla Porta della Marina. Già nelle opere giovanili è evidente un tratto cubista ispirato e imbevuto di spiriti simbolici e metafisici che si manifestano nella concretezza solida, tendenzialmente scultorea, di volumi squadrati e traiettorie rettificate in scenografie di piani prospettici.La pittura di Nino Scandurra può essere definita nel segno del cubismo costruttivista. Ma forse non ha bisogno tanto di definizioni quanto e più voracemente, chiede a gran voce che sia restituita la parola perduta. Ecco così l’approdare alla porta del tempio come uscita dal labirinto (di cui rimangon traccia le vestigia), portato come da un tappeto volante. Il cubismo è quello di prima maniera, pre-analitico e pre-sintetico. L’elemento costruttivista sta nella…

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What about the blues?

All right! In XXI century, finally we had light upon this apparently little truth: that everything modern music has been doing well, it got an exceptional debt with the blues. What we call rock’n’roll is nothing but the most stupid riff (without seventh notes in the deep, but just three simplest accords in sequence) coming from the abyss of the blues. To be real, we should say that the blues is the music, the rythm and feeling of the blacks of America, and that is what we should recognize, if we would be able to be intellectually and humanly honest. Without the black presence, a white man can do nothing else than a folk repertory, talking about the closest shape of these songs of deep human intensity and hope for emancipation and progress of spiritual life. Sometimes some stupid says that the blues is the music of the devil, as it is: because you must study it with the devil, if you want to play a believable blues. But the blues is melted in a culture which is not dualistic, not reduced on the war of good against evil. Blues is consciousness.

PERSONAL BLUES (2)

I’ve been playing my blues with a Gipsy guitar that I use to call “Jinney”, because she lead me somehow somewhere to the home of Jinney the witch in Camden Town, where in the place that once was her home, there’s a locanda named World’s End, and there I wrote the opening song of this collection. After all this attempt to tell you how I (didn’t) learn to play the blues, a black friend appeared and we made together a live exhibition to the Locanda Blues, during the 2018 Spring Equinox. But this is another story. Now we should concentrate our effort in exploring the possibilities of early blues, which is quite percussive. Maybe someone already knows that black people in Southern America invented the banjo when drums were forbidden by the law of white people: so they put a neck over the drum to say: “it’s not a drum, it’s a guitar“. Very soon they took true guitars, becoming the best players. The way I play here the guitar is very primitive, something like the way John Fahey said about the Charley Patton’s mood, but maybe the comparison is light years far away from my capabilities. Notwithstanding, what matters is that every guitar uses to play if you make something with her. And if you have a special feeling with, this is really ok.

Recensione Mazzini Occulto

Recensione di Caterina Luisa De Caro, che con acume si innesta al cuore dei contenuti.

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Blues dall’ultima città in fondo

Intervista a Douglas Ponton, responsabile scientifico della conferenza internazionale sul Blues.

Può il Blues essere un fattore positivo di trasformazione in un momento in cui le città vivono una stagione di forti tensioni, di cambiamenti epocali della composizione sociale organica? Può il Blues considerarsi un elemento di dialogo intergenerazionale e interculturale capace di parlare, con la leggerezza della musica, a tutte le classi sociali? Può il Blues farsi strumento in grado di cogliere i punti unificanti del valore di emancipazione e coscienza collettiva nelle nostre disordinate vite nelle città del nostro tempo? E che dire se questa riflessione viene fatta a partire da una città che vive una stagione di profonda crisi economica, sociale e culturale?

Leggi l’intera intervista su Sicilia Report

blues

Perturbazione del pleroma

di Hermes

Tra  miliardi di pagine scritte e stampate dall’uomo, le certezze vacillano anzi rafforzeremo il concetto, certezze non ve ne sono, accontentiamoci di qualche frammento di verità gettato qui e lì consolandoci con meravigliose espressioni d’arte partorite dopo lunghi travagli o manifestatesi con sfuggevoli fiammate arrivate nel cuore della notte in quella che qualcuno identifica come la “signora dalle ore scure” sua maestà Intuizione, abbiamo dato cosi tante sfumature all’amore da rendergli grazia e sfregiarlo cosi come solo l’uomo sa fare, nel giro di pochi minuti.

A lungo una domanda  ha cercato risposte, quando le domande le conosciamo ,ma son le risposte che mancano, certo è che, se ci rapportiamo a visioni alte, iper-uraniche non confrontandoci nel contempo a quali siano le reali dimensioni del mito, diviene semplicemente improbabile scoprire od accorgersi neanche del caffè che intanto sta uscendo dalla moca distrattamente lasciata sul fuoco e questo non è un invito a rimanere con i piedi per terra, ma semplicemente a quello di guardarci allo specchio perché il mito è li al cospetto e sarà lavoro dell’uomo nella sua singolarità riconoscersi ed evolversi rispetto ai riferimenti che maturando matureranno.

Accetti lo specchio?  da un punto di vista di localizzazione spirituale l’uomo sarebbe il riflesso, del riflesso, del riflesso esposto ad una n-esima potenza di un pre-padre incomprensibile… non spingiamoci oltre, la consapevolezza arriva la dove si arriva a comprendere qual è il vero lavoro da compiere e la sua dimensione nello spazio, il resto (ammesso che si riesca) è conseguenza del lavoro.  Il nostro lavoro sarà solo quello di lucidare gli specchi per permettere ai riflessi diciamo di essere più limpidi ogni speculazione qui appare vana, inconsistente, inutile, qui si opera. la sottile linea del “cosiddetto” male si manifesta con mirabile esperienza proprio perché è manifestazione prima di questo mondo. consideriamo il mito di Sofia e le sue implicazioni.

Sofia la Sapienza, la femmina Sofia.  La sua aspirazione cresce in funzione della distanza, in ultima posizione dimentica del suo posto, vuol comprendere l’infinito e, nella sua passione e nel suo amore si slancia verso il pre-padre incomprensibile, per dissolversi nell’infinità dell’abisso primordiale; se non fosse intervenuto il limite-croce. Lui “la trattiene e la consolida” il ritorno a sé stessa è devastante, ormai ha annusato un posto che non era il suo, arrestata dal limite  la sua intenzione, la sua tendenza, una parte di lei-resta e viene espulsa dal Pleroma.

V’è uno sdoppiamento, un riflesso… Enthimesis, il riflesso diviene realtà autonoma, sostanza pronta a diventare un’entità personale… Sofia la sua prevaricazione, ed il mondo, il nostro mondo venuto fuori, non poteva che essere al di sotto delle sue aspettative, un errore… la tendenza d’un disordine ha una forma, ma non coglie la sostanza. “Sofia non aveva afferrato nulla”.

Sofia conosce il suo posto,  ma il suo desiderio è al di sopra della natura…

 

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