Questo articolo trae spunto dallo spettacolo Kirikù un eroe piccolo piccolo (al teatro Vascello di Roma, fino al 14 aprile), nell’adattamento teatrale e regia di Danilo Zuliani. Sul palco Alessandra Maccotta, Aron Tewelde, Valeria Wandja, Jesus Issa Seck, Yonas Aregay Kidane, Francesca Piersante.
La favola di Kirikù è ben nota, essendo entrata nell’immaginario collettivo grazie al film di animazione del 1998 “Kirikù e la strega Karabà”. Essendo una storia tradizionale, tramandata da lunghe generazioni, tanto che non è possibile stabilire l’esatta origine di questo racconto popolare, la storia di Kirikù è una grande allegoria del percorso di crescita del “diventare grandi”.
Lasciamo a qualche foto di scena il compito di descrivere lo spettacolo (foto tratte dalle pagine fb della compagnia Nomen Omen) e prendiamo il largo per seguire le diverse incarnazioni del personaggio (più esattamente, della sintesi dei personaggi come emerge dall’adattamento di Zuliani) oggetto dell’interpretazione di uno degli attori, Jesus Issa Seck, provando a farne un tema di antropologia teatrale in rapporto al lavoro di introspezione dell’attore.
Com’è noto, le vie principali all’interpretazione sono quelle dell’immedesimazione (essenza del metodo Stanislavskij, prossimo all’interpretazione realistica, inteso come rappresentazione realistica) o dello straniamento (essenza del metodo Brecht, incline a denunciare l’artificialità della rappresentazione, attraverso gesti innaturali e forte utilizzo del trucco, in misura rapportabile alla funzione delle maschere nel teatro antico). Queste due vie sono collegate da una terza teorizzazione, quella di Strasberg che, con la “legge del fondamento interiore“, ha trovato una via intermedia tra immedesimazione e straniamento, introducendo l’improvvisazione (il jazz) nel recitativo. Possiamo ritenere che questa riflessione, applicata ad uno spettacolo di tradizione africana, sia in certa misura rivelatoria del debito che le teorizzazioni occidentali hanno in rapporto al teatro di tradizione, analogamente al modo in cui il jazz ha il suo fondamento nel blues e il blues nel deposito atavico della musica africana.
Ma non è di questo che qui parleremo quanto, piuttosto, del lavoro sulla coscienza che implica il recitare una parte: perché questo, nel suo svolgersi, denota delle relazioni che devono intercorrere tra la coscienza dell’attore e l’archetipo che è chiamato a impersonare. A questo punto possiamo notare il rigore quasi matematico della sequenza dei personaggi interpretati da Seck:
- Avevo un cappello magico, ma gli spiriti me lo han portato via.
- Riduzione a “stupida sentinella”, nemico di Kirikù (cioè nemico di sé stesso) e pronto a denunciarne ogni tentativo di azione positiva di riscatto della coscienza.
- Reintegrazione nella saggezza (apparizione come nonno di Kirikù, ovvero del Kirikù perfezionato) e abbandono della condizione di convenienza per tornare alla via della Coscienza per la vita universale.
- Personificazione della tradizione, ruolo sacerdotale nela celebrazione del trionfo della verità e indicazione a tutti della via della Coscienza.
Attraverso questo percorso, ognuno può trovare il suo specchio. A questo serve il lavoro dell’attore. Per sé e per gli altri. Per tutti e per nessuno.
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