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Ti suono le mie dita

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“Ti suono le mie dita per mano sola” è autenticamente, drammaticamente un libro di poesia. Autenticamente perché, lo capirà il Lettore leggendo, ogni singola lettera è motivata da una necessità espressiva che è un moto dell’anima. Drammaticamente perché la poesia è tutta lì, con la sua immensa potenza che, in qualsiasi momento, può vacillare e perdersi in un vuoto di senso.

Di più: questa opera poetica si offre nella sua nudità, proiettata in copertina con un’immagine che quasi non ha e non dà riparo e con assoluta bellezza – ma anche con altrettanto assoluta fragilità – si manifesta agli occhi di chi può vedere. La reazione allo stimolo di questa arte denudata è di protezione, di accordo tacito per il mantenimento del segreto, di occultamento all’interno di un cassetto privilegiato. L’immagine iconica ben si accorda con il contenuto del testo, che conferma questa intimità nella rivelazione di un segreto. Non a caso un’altra silloge della stessa Poetessa ha per titolo “Sono donna che non c’è”.

Sarebbe un errore volgere tutto in una psicologizzante interpretazione al femminile. Anche dove la poesia si fa filastrocca, sullo sfondo sono sempre immensi archetipi, che collocano questi versi come in un interludio tra gli emblemi della Cabala Denudata e la manifestazione femminile trascendente della Shekinah. Ovunque e in nessun luogo. Il posto della poesia.

Recensione a Irena Sendler

2561Fonte: Periscopio – La madre del ghetto [si ringrazia Suzana Glavas per la segnalazione]
Ho avuto occasione, nel mio intervento settimanale dello scorso 17 febbraio, di parlare della straordinaria figura di Irena Sendler (nata a Varsavia nel 1910, e ivi scomparsa nel 2008), a cui è stata dedicata una toccante rappresentazione teatrale, dal titolo “Irena Sendler: la terza madre del ghetto di Varsavia” (ideazione, progettazione e cura di Roberto Giordano e Suzana Glavaš, col Patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli), che ha vivamente commosso tutti coloro che hanno finora avuto il privilegio di assistervi, e che speriamo possa ancora essere apprezzata da un numero sempre crescente di spettatori. È con vivo compiacimento, pertanto, che salutiamo l’iniziativa dell’Editrice la Mongolfiera di dare alle stampe il testo teatrale del lavoro di Roberto Giordano, in un libro – dallo stesso titolo della rappresentazione – che permetterà di conoscere la storia della Sendler a coloro che non abbiano avuto la possibilità di assistere allo spettacolo, così come darà a quelli che invece vi abbiano partecipato l’opportunità di riprovare, attraverso la lettura, in modo diverso, le emozioni suscitate dalla recita.
Per chi non conosca la vicenda della Sendler, ricordiamo che fu un’infermiera cattolica che, durante la Seconda Guerra mondiale, nella Varsavia occupata dai nazisti, contravvenendo agli ordini delle autorità occupanti, continuò a dare protezione, cura e assistenza a migliaia di ebrei, riuscendo a salvarne moltissimi – almeno 2500 – dalla morte. Fu chiamata “la terza madre”, perché molti bambini ebrei, avendo perso la madre naturale (la “prima madre”), uccisa dai tedeschi, furono da lei affidati, con falsi documenti e con nomi cristiani, alle cure di donne polacche di buoni sentimenti (“seconde madri”). La Sendler (“terza madre”) salvò così la vita a numerosi bimbi, premurandosi anche di annotarne e custodirne, in segreto, i veri nomi, accanto a quelli falsi, nella speranza (che, in moti casi, andò esaudita) di poter un giorno fare ricongiungere i bambini con le loro famiglie. Torturata dai nazisti (le furono fratturate entrambe le gambe, e sarebbe rimasta menomata per tutta la vita), si rifiutò sempre di parlare, salvando così la vita dei suoi bambini. Finita la guerra, il suo operato è caduto nell’oblio (senza che lei facesse nulla per farlo conoscere o per ricevere alcun ringraziamento), ma è poi fortunatamente stato conosciuto e apprezzato, facendola eleggere dallo Yad Vashem, nel 1965, “Giusta tra le nazioni”, facendole attribuire numerosi riconoscimenti pubblici e facendo intitolare a suo nome diverse scuole, in Polonia e in Germania. Un libro, questo appena pubblicato, che contribuisce a dare onore a una grande donna, e per il quale vanno ringraziati l’autore e l’editore, insieme a Glavaš, che ha contribuito a valorizzarne la figura.
Aggiungo una piccola postilla.
Nel mio intervento del 17 febbraio, ricollegandomi alle parole del Console di Polonia, ho annotato come l’eroismo della “terza madre” abbia contribuito a riscattare, almeno un po’, l’onore del popolo polacco, così come, per esempio, una figura come Giorgio Perlasca può avere fatto per il popolo italiano. Quel che oggi vorrei aggiungere – rinnovando i complimenti a Giordano, alla Glavas e alla Casa editrice – è che persone come la Sendler e come Perlasca dovrebbero valere da monito contro ogni forma di generalizzazione volta a incriminare collettivamente tutti gli appartamenti a un dato popolo, o una data religione, secondo un meccanismo di colpevolizzazione eterna e collettiva che gli ebrei conoscono molto bene. “Se anche ci fosse un solo tedesco umano – scrisse Hetty Hillesum – non avremmo il diritto di riversare la nostra condanna sull’intero popolo tedesco”. Certo, dire che tutti i polacchi, tutti gli italiani e tutti i tedeschi vengano collettivamente assolti dall’azione della Sendler, di Perlasca o degli ufficiali che organizzarono l’attentato a Hitler sarebbe ovviamente una comoda scorciatoia. Ma cosa diremmo di qualcuno che usasse parole di disprezzo verso la “terza madre” per il suo essere stata polacca, o cattolica? Credo che un giudizio del genere non potrebbe non suscitare la più totale e immediata condanna. Eppure è proprio a qualcosa del genere che stiamo oggi assistendo – anche, purtroppo, da parte di persone amiche degli ebrei e di Israele – nei confronti degli islamici (ma non solo). Dilagano, sul web, frasi sinistre e ripugnanti, improntate a una logica squisitamente razzista. Sono cose assolutamente inaccettabili, che nessun amore per Israele, e nessuna sacrosanta esigenza di lotta contro la violenza e il terrorismo di matrice islamica potrà mai giustificare. Un esempio per tutti: l’elezione a sindaco di Londra del pakistano Sadiq Kahn, che ha scatenato in rete un’immediata ondata di insulti, nell’automatica convinzione che dovesse trattarsi di un estremista antioccidentale, filoterrorista e antisemita. Tutte cose lontanissime dalla realtà: concluse le elezioni per i sindaci delle nostre città, credo proprio che molti, oggi, potrebbero invidiare i cittadini londinesi. E non c’è stato nessuno, ma proprio nessuno, che, dopo averlo insultato, acquisita qualche maggiore informazione, abbia avuto l’onestà intellettuale di dire: “mi sono sbagliato, questo Kahn pare una persona per bene”. Evidentemente, un esercizio del genere non è ammissibile nell’eterna notte in cui stiamo vivendo, nella quale, com’è noto, tutte le vacche sono nere. Tutti i polacchi, compresa la Sendler, restano polacchi, così come tutti gli italiani, compreso Perlasca, e tutti i musulmani, compreso Kahn, restano quello che sono. È più facile, si fa prima, e non si sbaglia mai.
Francesco Lucrezi, storico
(22 giugno 2016)

Sono donna che non c’è

glavasUna recensione alla silloge poetica di Suzana Glavaš dovrebbe riconoscere dapprima la struttura del verso, che è in prevalenza spezzato, franto, tanto da far pensare al Porto Sepolto, dove i versi si disintegrano al punto da lasciar per ogni riga tre, due parole, addirittura una semplice congiunzione, meglio se avversativa o.

Un tentativo di interpretazione psicologizzante andrebbe sùbito in cerca delle ragioni che hanno condotto l’anima lieve di questa donna a destrutturarsi, a deflagrare come accade alle sue parole. Contro questa antitetica scorciatoia si staglia immediatamente una composizione che assume il compito di disinnescare ogni didascalia, e dice:

Non chiederti perché 

non pensare a come

è sempre un’eco

che spiega 

cose nuove

In questo modo, senza dire, è apparsa la spiegazione dell’inspiegabile, che può avvenire soltanto attraverso e per la rinuncia al voler tutto comprendere con la mente e finalmente disporsi ad aprire la porta del cuore.

Resta l’enigma dell’assenza in cui ci si può trovare, leggendosi nell’anima.

Suzana Glavaš Sono donna che non c’è Aracne 2013

 

Memorie sulla Shoah in Croazia. Le testimonianze dirette di tre sopravvissuti

Recensione di Davide C. Crimi*

398af_copertina_memorie_sulla_shoah_in_croazia“Le memorie sulla Shoah in Croazia” (di Paul Schreiner, Tullio Pironti editore, Napoli 2015 – a cura di Suzana Glavaŝ ) è innanzi tutto un documento che si inscrive nel solco profondo, ma non per questo meno vulnerabile e incerto, dell’antropologia familiare e cioè del tentativo di comprendere gli eventi non tanto e non soltanto soggettivamente, ma individuando le maglie di un comune destino.

Su queste frequenze, nessuna cultura come quella ebraica ha dato apporti paragonabili, ed in questo senso la tessitura di costruzione e ricostruzione di memorie labili, mai immuni dal rischio di andare perdute, offre un paradigma esemplare per ogni lettore, una lezione di metodo sulla quale l’elemento ebraico, intimamente connesso alla memoria sia pure nelle dimensioni più intime e dolorose, diviene esempio e, attraverso questo farsi esempio, come hanno detto i Profeti, si fa Luce per le Nazioni. Continua a leggere “Memorie sulla Shoah in Croazia. Le testimonianze dirette di tre sopravvissuti”

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