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What about the blues?

All right! In XXI century, finally we had light upon this apparently little truth: that everything modern music has been doing well, it got an exceptional debt with the blues. What we call rock’n’roll is nothing but the most stupid riff (without seventh notes in the deep, but just three simplest accords in sequence) coming from the abyss of the blues. To be real, we should say that the blues is the music, the rythm and feeling of the blacks of America, and that is what we should recognize, if we would be able to be intellectually and humanly honest. Without the black presence, a white man can do nothing else than a folk repertory, talking about the closest shape of these songs of deep human intensity and hope for emancipation and progress of spiritual life. Sometimes some stupid says that the blues is the music of the devil, as it is: because you must study it with the devil, if you want to play a believable blues. But the blues is melted in a culture which is not dualistic, not reduced on the war of good against evil. Blues is consciousness.

PERSONAL BLUES (2)

I’ve been playing my blues with a Gipsy guitar that I use to call “Jinney”, because she lead me somehow somewhere to the home of Jinney the witch in Camden Town, where in the place that once was her home, there’s a locanda named World’s End, and there I wrote the opening song of this collection. After all this attempt to tell you how I (didn’t) learn to play the blues, a black friend appeared and we made together a live exhibition to the Locanda Blues, during the 2018 Spring Equinox. But this is another story. Now we should concentrate our effort in exploring the possibilities of early blues, which is quite percussive. Maybe someone already knows that black people in Southern America invented the banjo when drums were forbidden by the law of white people: so they put a neck over the drum to say: “it’s not a drum, it’s a guitar“. Very soon they took true guitars, becoming the best players. The way I play here the guitar is very primitive, something like the way John Fahey said about the Charley Patton’s mood, but maybe the comparison is light years far away from my capabilities. Notwithstanding, what matters is that every guitar uses to play if you make something with her. And if you have a special feeling with, this is really ok.

Recensione Mazzini Occulto

Recensione di Caterina Luisa De Caro, che con acume si innesta al cuore dei contenuti.

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Blues dall’ultima città in fondo

Intervista a Douglas Ponton, responsabile scientifico della conferenza internazionale sul Blues.

Può il Blues essere un fattore positivo di trasformazione in un momento in cui le città vivono una stagione di forti tensioni, di cambiamenti epocali della composizione sociale organica? Può il Blues considerarsi un elemento di dialogo intergenerazionale e interculturale capace di parlare, con la leggerezza della musica, a tutte le classi sociali? Può il Blues farsi strumento in grado di cogliere i punti unificanti del valore di emancipazione e coscienza collettiva nelle nostre disordinate vite nelle città del nostro tempo? E che dire se questa riflessione viene fatta a partire da una città che vive una stagione di profonda crisi economica, sociale e culturale?

Leggi l’intera intervista su Sicilia Report

blues

Byron raccontato e rivissuto nel disco di Eric Andersen

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Il disco di Eric Andersen su George Byron non è fatto per un ascolto distratto. In questo senso, è un’opera anacronistica. Non è nemmeno un prodotto; è piuttosto un lavoro letterario e di ordine e grandezza non trascurabile, se è vero che riesce a riportare luce su un nome certamente molto noto: George Byron; nome molto noto ma non per questo autore veramente conosciuto. E ciò non soltanto per generale debolezza o trascuratezza di chi non ne ha mai letto le opere, ma anche perché i suoi lavori letterari non sono di facile collocazione. Non ci riferiamo soltanto alle dimenticabili – e infatti dimenticate – edizioni italiane delle opere di Byron, che difficilmente riescono a renderne il lettore complice emotivo del poeta, ma riportiamo anche del destino che il poeta ha sino ad oggi avuto nella sua Inghilterra.

Se dobbiamo venire subito al punto, Byron è sempre stato scomodo. Scomodo all’eccesso, per essere più che un marchio che sovrasta la sua opera e persino la sua medesima personalità, dove il nome George sparisce per lasciar posto a un più generico e ovattato appellativo “Lord Byron”, che ne occulta il carattere e lo risolve nelle intemperanze di un privilegiato.

Nel libretto illustrativo, ben curato e utilissimo, che accompagna il disco, Andersen si domanda perché Byron sia stato così poco in attenzione. «A story of neglect», la definisce: e ne offre i motivi senza girarci intorno, puntando all’essenziale, al comprensibile. In breve, George Byron a ventotto anni, nel 1816, venne forzato ad andar via dall’Inghilterra, in esilio. La moglie, Anne Isabelle Milbanke, chiamata Annabelle, un’ereditiera colta con propensione per la matematica, si trovò a soffiare sul fuoco, rivelando che dietro la «Thyrza» di un suo poema non c’era la cugina del poeta ma l’amico collegiale John Edleston. E non c’era solo questo: l’amante, Carolyne Lamb, con cui entrò in dissidio; e una nuova amante incestuosa, Augusta Leigh, che gli era sorella per parte di padre. Inoltre, e ancor peggio per i Lord dell’epoca (ma anche dei contemporanei): idee politiche favorevoli all’emancipazione del popolo!

All’inizio, l’esilio di Byron non è che romantico gioco: in Svizzera, con la nuova compagna Claire Clairmon, in compagnia di Shelley e della moglie. Ma nessun gioco può durare: il manto chic & snob dell’esilio come gesto estetico presto cede posto alla scena fatale dei destini umani. L’esilio diventa condizione esistenziale autentica e, manifestando il suo peso, scuote nell’anima di Byron la necessità e il desiderio che lo condurranno alla ricerca di un ideale, di una giustificazione alla vita: e l’indipendenza della Grecia si offrirà come simbolo e come vessillo, fino alla morte a soli trentasei anni.

La raccolta di brani di Eric Andersen è di perfetta immedesimazione, con testi ottenuti per interpolazione da liriche di Byron e due composizioni che hanno intento biografico. L’opera, preparata in un anno e mezzo di riflessione (ma, c’è da ritenere, con una incubazione ben più remota), ha avuto esito felicissimo con il concerto nella casa avita di Byron nel 2015 (tra l’altro, trasmesso dalla BBC).

Andersen è un americano, e come tale non esita a mescolare elementi come forse un europeo non oserebbe, portando al registro blues il tessuto musicale del racconto, che mantiene comunque sempre una sua potenza artistica e una coerenza di stile attraverso l’apporto del liuto dei trovatori, l’oud arabo suonato da Giorgio Curcetti. Il violino di Michele Gazich è sempre su livelli siderali, e conferisce all’impasto di musica, trovatura, sangue e blues una profondità di fuoco adattissima alle atmosfere di questa ricostruzione poetica che si completa con le percussioni di Cheryl Prashker, il piano di Paul Zoontjens e le seconde voci di Inge Andersen.

La foto, che appare sugli interni del disco, riproduce la band al completo. Da sinistra verso destra: Michele Gazich, Paul Zoontjens, Eric Andersen, Inge Andersen, Cheryl Prashker.

I fratelli Rosselli

Molte cose si potrebbero dire di loro, tutte sostanzialmente sconosciute al grande pubblico. Eredi legittimi della tradizione mazziniana. Insigni studiosi della traduzione dell’eredità risorgimentale nel nuovo secolo. Araldi dell’intelligenza contro il totalitarismo. Fondatori di giornali (Non Mollare, Giustizia e Libertà, Quarto Stato) all’indomani del delitto Matteotti. Artefici della fuga del socialista Turati dal dilaniante giustizialismo di regime. Questa canzone non pretende certo di sostituirsi alla ricerca storica ma ha il desiderio di contribuire a fare in modo che chi vedrà questo messaggio senta il desiderio di approfondire, di conoscere.

L’immagine, elaborazione di due foto classiche di Carlo (a sinistra di chi guarda) e Nello Rosselli, è tratta da Casa della Cultura (http://www.casadellacultura.it/112/attualita-dei-fratelli-rosselli), invitando alla lettura dell’interessante articolo scritto da Francesco Somaini, presidente del Circolo Carlo Rosselli di Milano.

Il brano qui proposto è stato scritto e interpretato da Davide C. Crimi

Il Dio dell’Eden

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IL DIO DELL’EDEN introduce il Lettore a un albero i cui frutti hanno un riconoscibile odore familiare. Un approfondimento aperto dell’ebraismo nei suoi rapporti con il cattolicesimo e l’islam considerati attraverso il prisma della cabala e del marranesimo occidentale, zona di confine in cui si ritrovano le radici occulte dell’illuminismo e della moderna sensibilità europea. Trattando questa complessa materia, il libro affronta temi come l’ostracismo dell’astronomia nei secoli passati e l’argomento del Dio dell’Eden come “Grande Ingannatore” che accompagnò il risveglio della coscienza in epoca moderna. Tema ancora attuale per chi intende comprendere dal più largo orizzonte, le dinamiche del potere e del controllo sociale.

Filosofia della Musica

Chi qui suona sì non sa di musica, se non quanto gl’insegna il core, o poco più; ma nato in Italia, ove la musica ha patria, e la natura è un concento, e l’armonia s’insinua nell’anima colla prima canzone che le madri cantano alla culla dei figli, egli sente il suo diritto, e suona e risuona senza studio ordinario, ma come il cor gli detta, quelle arie che vengono da lungi e iperuranie che lui sente vere e non avvertite finora, pure urgenti a far sì che la musica e il dramma musicale si levino a nuova vita dal cerchio d’imitazioni ove il genio s’aggira in oggi costretto, inceppato dai maestri e dai trafficatori di note. Costoro s’astengano dall’ascolto e dal commento. Non è per essi. Tutto è qui pei pochi che nell’Arte sentono il mistero, e iniziati intendono.

 (ad.da: G. Mazzini, Filosofia della Musica, 1833)

There are not righteous wars

Altaras, id est Altotas, the Qaraite

Prof. Dan Shapira, dell’università di Yalta, con il quale fui in corrispondenza tempo addietro, mi scrisse affermando: “Crimi it’s a name whose meaning is simply ‘person who comes from Crimea’.

La connessione con la Crimea è remota, e va fatta risalire all’età medievale.

Questo articolo: Davide Crimi – Tracce della presenza caraita.pdf e l’articolo del prof. Morabito sulla presenza dei Caraiti in Sicilia
http://www.globalfolio.net/archive/viewtopic.php?t=313&sid=f2b8981b3fe28ec2505d03fe066d7239
sono le esili tracce su cui si muove questa speciale ipotesi.

Sul karaismo in generale, http://it.wikipedia.org/wiki/Caraismo

e, inoltre, http://it.wikipedia.org/wiki/Saadya_Gaon

Sulla presenza dei karaiti in Sicilia, le origini sono da rinvenire nel loro coinvolgimento nell’esercito di Ruggero II.http://www.geschichteinchronologie.ch/eu/griechenland/EncJud_juden-in-gr04-wirtschaft-11-12jh-ENGL.html

[Normans take some Jews for silk weaving]

After Roger II, the king of the Normans in Sicily, conquered some Greek towns in 1147, he transferred some Jewish weavers to his kingdom in order to develop the weaving of silk in his country. On Mount Parnassus Benjamin of Tudela found 200 farmers; there were also some serfs among the Jews. During the reign of the Byzantine emperor Constantine IX Monomachus (1042-1055), there were 15 Jewish families in Chios who were perpetual serfs to the Nea Moné monastery. The Jews of Chios paid a poll tax – in reality a family tax – which the emperor transferred to the monastery. The Jews of Salonika also paid this tax.
The majority of the Jews conducted their trade on a small scale and with distant countries. The Greek merchants envied their Jewish rivals and sought to restrict their progress. *Pethahiah of Regensburg describes the bitter exile in which the Jews of Greece lived (see also *Byzantine Empire).> (col. 874).

La connessione tra ebrei kazari (karaim) e la Sicilia è poi avvalorata dalle testimonianze del Dizionario storico degli autori ebrei e delle loro opere di Giovanni Bernardo de Rossi, dove si legge di Altaras, molto probabilmente l’Altotas da cui proviene l’antica dottrina che riemerge con Cagliostro e con Weishaupt, ritornando alla connessione con l’ebraismo riformato dei karaiti, da cui infine dipende la dottrina di Tzevì e dei Frankisti, fino a Firkovich.

http://www.turkistan.org/shapira.htm

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