
Il disco di Eric Andersen su George Byron non è fatto per un ascolto distratto. In questo senso, è un’opera anacronistica. Non è nemmeno un prodotto; è piuttosto un lavoro letterario e di ordine e grandezza non trascurabile, se è vero che riesce a riportare luce su un nome certamente molto noto: George Byron; nome molto noto ma non per questo autore veramente conosciuto. E ciò non soltanto per generale debolezza o trascuratezza di chi non ne ha mai letto le opere, ma anche perché i suoi lavori letterari non sono di facile collocazione. Non ci riferiamo soltanto alle dimenticabili – e infatti dimenticate – edizioni italiane delle opere di Byron, che difficilmente riescono a renderne il lettore complice emotivo del poeta, ma riportiamo anche del destino che il poeta ha sino ad oggi avuto nella sua Inghilterra.
Se dobbiamo venire subito al punto, Byron è sempre stato scomodo. Scomodo all’eccesso, per essere più che un marchio che sovrasta la sua opera e persino la sua medesima personalità, dove il nome George sparisce per lasciar posto a un più generico e ovattato appellativo “Lord Byron”, che ne occulta il carattere e lo risolve nelle intemperanze di un privilegiato.
Nel libretto illustrativo, ben curato e utilissimo, che accompagna il disco, Andersen si domanda perché Byron sia stato così poco in attenzione. «A story of neglect», la definisce: e ne offre i motivi senza girarci intorno, puntando all’essenziale, al comprensibile. In breve, George Byron a ventotto anni, nel 1816, venne forzato ad andar via dall’Inghilterra, in esilio. La moglie, Anne Isabelle Milbanke, chiamata Annabelle, un’ereditiera colta con propensione per la matematica, si trovò a soffiare sul fuoco, rivelando che dietro la «Thyrza» di un suo poema non c’era la cugina del poeta ma l’amico collegiale John Edleston. E non c’era solo questo: l’amante, Carolyne Lamb, con cui entrò in dissidio; e una nuova amante incestuosa, Augusta Leigh, che gli era sorella per parte di padre. Inoltre, e ancor peggio per i Lord dell’epoca (ma anche dei contemporanei): idee politiche favorevoli all’emancipazione del popolo!
All’inizio, l’esilio di Byron non è che romantico gioco: in Svizzera, con la nuova compagna Claire Clairmon, in compagnia di Shelley e della moglie. Ma nessun gioco può durare: il manto chic & snob dell’esilio come gesto estetico presto cede posto alla scena fatale dei destini umani. L’esilio diventa condizione esistenziale autentica e, manifestando il suo peso, scuote nell’anima di Byron la necessità e il desiderio che lo condurranno alla ricerca di un ideale, di una giustificazione alla vita: e l’indipendenza della Grecia si offrirà come simbolo e come vessillo, fino alla morte a soli trentasei anni.
La raccolta di brani di Eric Andersen è di perfetta immedesimazione, con testi ottenuti per interpolazione da liriche di Byron e due composizioni che hanno intento biografico. L’opera, preparata in un anno e mezzo di riflessione (ma, c’è da ritenere, con una incubazione ben più remota), ha avuto esito felicissimo con il concerto nella casa avita di Byron nel 2015 (tra l’altro, trasmesso dalla BBC).
Andersen è un americano, e come tale non esita a mescolare elementi come forse un europeo non oserebbe, portando al registro blues il tessuto musicale del racconto, che mantiene comunque sempre una sua potenza artistica e una coerenza di stile attraverso l’apporto del liuto dei trovatori, l’oud arabo suonato da Giorgio Curcetti. Il violino di Michele Gazich è sempre su livelli siderali, e conferisce all’impasto di musica, trovatura, sangue e blues una profondità di fuoco adattissima alle atmosfere di questa ricostruzione poetica che si completa con le percussioni di Cheryl Prashker, il piano di Paul Zoontjens e le seconde voci di Inge Andersen.
La foto, che appare sugli interni del disco, riproduce la band al completo. Da sinistra verso destra: Michele Gazich, Paul Zoontjens, Eric Andersen, Inge Andersen, Cheryl Prashker.
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